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Wanderlust: i viaggi e la scienza

Che cos’è e perché ci dovrebbe interessare saperlo?

di Beatrice Lelli

Mi rivolgo soprattutto a tutti i ragazzi che hanno sempre sentito un senso di irrequietezza e che si sentono tutt’ora inadatti poiché non sanno ancora dare un significato alla parola casa: infatti non possono legarsi ad un solo luogo dato che appartengono al mondo.
Perciò per cominciare a sentirsi un po’ di più a casa devono imparare a conoscerla e per fare questo hanno bisogno di esplorarla viaggiando.

Questa non è una malattia o una pericolosa ossessione, ma un gene chiamato DND4–7R o più comunemente Wanderlust, che appartiene solo ad una piccola percentuale di popolazione e che causa questa voglia irrefrenabile di viaggiare generata da una grande curiosità rispetto al mondo che ci circonda.

Questo particolare gene è stato scoperto e studiato per la prima volta nel 1999 da Chaunsheng Chen, uno scienziato che è potuto arrivare ad affermare che le persone più predisposte ad avere questo gene appartenevano alla stirpe di coloro che, in origine, si erano voluti allontanare dall’Africa per migrare verso paesi più floridi.

Questo però non fu l’unico scienziato incuriosito dal raro gene del Wanderlust.
Infatti anche Jim Nooan, uno studioso di genetica, riuscì ad arrivare a delle conclusioni che però erano più specifiche, poiché erano improntate sull’aspetto dell’uomo. Infatti lo studioso in questione affermò che vi erano delle specie di ominidi anatomicamente più propense a viaggiare rispetto ad altre, e che per questo motivo anche il loro cervello era in grado di elaborare dei passaggi creativi più complessi.

A mio parere sia che si tratti di un gene che risale a miliardi di anni fa o semplicemente ad alcuni decenni passati non cambierà mai il fatto che è anche grazie a coloro che lo possiedono che ora siamo in grado di poter conoscere il mondo in ogni sua minima caratteristica. Quindi questi ultimi non possono essere bollati solo come “diversi”, ma al contrario come “esploratori”, i veri conoscitori del mondo.

Brainmusic

Tutti vediamo la musica a modo nostro, ma come la vede il nostro cervello?

di Beatrice Lelli

Oggi non mi concentrerò tanto sull’aspetto etimologico o sul significato che la musica può avere per ognuno di noi, ma su come quest’ultima interagisca con il nostro corpo a livello neurologico e se esiste una ragione per la quale siamo portati ad amare un genere musicale più di un altro.

Vi sono diverse interpretazioni di come la musica sia in grado di interagire con il nostro cervello. Per alcuni, come Gardner (docente dell’università di Harvard), l’attitudine e la competenza musicali appartengono ad un substrato cerebrale totalmente riservato a questa particolare attività e capacità: per questo motivo, essendo localizzate in un’area autonoma dalle altre, chiunque sia sottoposto ad uno stimolo adeguato sarebbe potenzialmente in grado di praticarla.

Quindi, secondo questa teoria, la musica non “discrimina” nessuno in partenza, poiché può accadere che uno schizofrenico raggiunga grandi risultati , o almeno risultati più rilevanti di quanti mai ne otterrà un brillante scienziato o matematico di successo.

Vi sono, però, anche altre interpretazioni, secondo cui la musica viene vista come un prolungamento o l’esercizio dell’intelligenza del cervello umano: infatti, essa metterebbe in gioco molte altre funzioni e componenti che fanno parte dei processi essenziali alla sopravvivenza e al sostentamento dell’uomo, come ad esempio la comprensione del linguaggio o la decodificazione e l’unione di determinati simboli.
Quindi, secondo questo ragionamento, alla musica non sarebbe riservato alcuna area cerebrale o alcuna funzione specifica e per questo è costretta ad appoggiarsi ad altri sistemi più adatti ed avanzati che però servirebbero per altri compiti, svolgendo così una funzione parassitaria.

Personalmente prediligo la prima interpretazione; sarà perché mi piace essere una persona ottimista o perché credo fermamente nella musica, ma non riesco a capacitarmi di come questa possa essere considerata un parassita, tanto meno dal momento in cui sono stati scientificamente affermati i grandi risultati ottenuti grazie all’aspetto curativo della musica, soprattutto a livello psicologico.

Per quanto riguarda la scelta di prediligere un certo tipo di genere musicale rispetto ad un altro, questo dipende dalle emozioni che esso trasmette ad ognuno di noi e quindi coinvolge il meccanismo psicologico di ogni uomo, ma questo è un altro discorso…